IPO POSTE ITALIANE, PER LE BANCHE UNA BUONA FORCHETTA

Comunque vada in Borsa, per i collocatori sarà comunque un successo. Grazie alla greenshoe, basta un piccolo rialzo del titolo e per le banche del consorzio scatta il bonus plurimilionario. La forchetta di prezzo proposta al pubblico è 6 - 7,5 ovvero il 25%. Tanta roba...

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(scritto in collaborazione con  Alfonso Scarano, analista finanziario indipendente)

I passaggi pubblicitari di Poste Italiane che reclamizzano il collocamento dei titoli a Piazza Affari non si contano, come pure l’attivismo di tante banche a convincere i clienti che i titoli di Poste Italiane sono un affare da non perdere. Qualcosa che potrebbe far dimenticare l’ultima parziale privatizzazione sbarcata poco più di un anno fa a Piazza Affari, Fincantieri, che si è rivelata una trappola per molti risparmiatori (-23% nell’ultima settimana) allettati anche dalla bonus share (1 azione gratuita ogni 20) che non è  certo bastata a compensare il crollo del titolo.

Questa volta nel caso di Poste Italiane la valutazione va detto appare più corretta e accresce le possibilità di guadagno per i sottoscrittori nel breve.

Molte le analisi pubblicate su questo collocamento ma poche si sono forse soffermate sugli aspetti più veniali ovvero quanto guadagnano le banche che costituiscono il consorzio di collocamento? Quanto costa a Poste Italiane questo ambaradan? E soprattutto un collocamento di questo tipo potrebbe fornire qualche spunto alle autorità di controllo per rendere simili operazioni più trasparenti e corrette per i piccoli risparmiatori ?

Per i collocatori l’ipo di Poste Italiane difficilmente sarà un pacco.

Nelle 85 pagine dedicate nel prospetto informativo (di sole 988 pagine sigh!) ai rischi dell’investimento vi è anche il rischio dei: “dati legati all’Offerta Pubblica di Vendita e altre informazioni che saranno comunicate successivamente alla Data del Prospetto”.

Quanto spenderanno le Poste Italiane per quotarsi in Borsa fra oneri legali e campagne pubblicitarie? Circa 15 milioni di euro è il costo messo a budget. E poi ci sono i costi del collocamento da riconoscere al consorzio che pagherà l’Ente Venditore ovvero lo Stato ovvero i contribuenti.

E qui come è tipico di queste operazioni le banche che si occupano del collocamento hanno una doppia fonte di possibili entrate. Perchè la remunerazione delle banche che hanno assunto l’incarico del collocamento è formata da uno 0,45% dell’intero collocamento (pagina 939 del prospetto) e poi da una opzione “greenshoe” (letteralmente scarpetta verde), ovvero un diritto di sottoscrivere, appunto entro 30 giorni, 45,3 milioni di titoli al prezzo di collocamento che potranno essere collocate sul mercato come quota aggiuntiva.

Scarpetta verde
Le banche che accompagnano in Borsa Poste Italiane possono esercitare un’opzione chiamata “greenshoe”: se dopo la quotazione il titolo sale, possono farsi consegnare dalla società un numero aggiuntivo di azioni al prezzo di collocamento e rivenderle sul mercato

Facendo due semplici calcoli lo 0,45% di 3,4 miliardi di euro (se Poste Italiane viene collocato al prezzo massimo di 7,5 euro) fa altri 15 milioni di euro e spiccioli di euro che le banche del consorzio di collocamento guadagnano per il disturbo.

E poi c’è la “success fee”. Le banche che collocano i titoli hanno anche la possibilità di guadagnare sulla “scarpetta verde” ovvero la greenshoe, un classico in queste operazioni. Storicamente questo termine nasce dall’azienda americana Green Shoe Corporation che utilizzò questa tecnica per la prima volta al momento della sua quotazione per trovare un modo per remunerare maggiormente le banche collocatrici con una parte variabile.

Quindi se per esempio il titolo durante il primo mese aumenta di un euro rispetto al prezzo di collocamento, le banche del consorzio (Mediobanca, Banca Imi e Unicredit in prima fila) possono esercitare la greenshoe ovvero farsi consegnare da Poste Italiane 45,3 milioni di azioni al prezzo di collocamento, venderle sul mercato e spartirsi fra loro tutto il capital gain di circa 45 milioni di euro nel caso che il titolo salga di un euro (+13% dal prezzo di collocamento). Se il titolo va sopra il prezzo di collocamento, per le banche collocatrici sono quindi profitti quasi assicurati. Se scende sotto il prezzo di collocamento, possono naturalmente non esercitare questa opzione.

Che il cda di Poste Italiane abbia deciso quindi di puntare su una forchetta bassa (tra 6 e 7,5 euro) rispetto alle attese per collocare più facilmente il titolo è una decisione ottima anche per le banche collocatrici.

POSTE buona forchetta

Le probabilità di guadagnare con la “scarpetta” (e cifre non proprio irrisorie) sono sicuramente aumentate.
E oltre al prestigio di partecipare a una delle più importanti “privatizzazioni” italiane degli ultimi 20 anni ci potrebbe essere un bel doppio gettone per il disturbo.

In Italia la forchetta delle Ipo è troppo grande…

La forchetta di prezzo (ovvero la distanza fra minimo e massimo) proposta fra 6 euro e 7,5 euro è veramente alta e colpisce che in Italia si possano continuare a proporre col disco verde delle autorità di controllo simili intervalli. Il risparmiatore privato che sottoscrive le azioni in collocamento non può fissare un prezzo limite per l’acquisto (a differenza degli istituzionali) e dispone un ordine di acquisto quasi alla cieca.

Nei collocamenti all’italiana la forchetta come nel caso di Poste Italiane può essere del 25% tra prezzo minimo e massimo ed è facile capire che un conto è sottoscrivere le azioni a 6 euro e avere determinate chance di guadagno; altro è se il prezzo a cui vengono assegnate è 7,5 euro.

Si guardi per esempio cosa è successo oltreoceano con il collocamento di Ferrari: lì la forchetta proposta e approvata dalla Sec americana è stata di meno del 10% (prezzo minimo 48 dollari, prezzo massimo 52 dollari). E perfino per il collocamento del millennio che è stato Facebook la forchetta proposta è stata fra 34 e 38 dollari (forchetta dell’11%).

In Italia invece il meccanismo di formazione del prezzo in una Ipo (e non è certo solo il caso di questo collocamento) resta qualcosa di totalmente sbilanciato (e dunque in costante conflitto d’interessi) a favore degli intermediari e dei collocatori che collocano le azioni presso gli investitori al dettaglio. E questa situazione non favorisce certo la trasparenza e la tutela dei piccoli investitori.

Speriamo che non sia il caso proprio di Poste Italiane ma per evitare “pacchi” ai risparmiatori non sarebbe male che Consob rivalutasse nuove regole più eque sui meccanismi di formazione del prezzo e sulle regole dei collocamenti. Oggi il vantaggio di collocatori e intermediari (e la potenza di fuoco che possono mettere in campo) è quasi tutta a loro vantaggio. Troppo.

Questo articolo scritto a quattro mani da Alfonso Scarano, analista finanziario indipendente e Salvatore Gaziano direttore investimenti di SoldiExpert SCF è stato pubblicato oggi anche su “Il Fatto Quotidiano”

20151022 FQ su Ipo Poste

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