Altro che pene d’amore. Per gli italiani le sofferenze vere sono quelle scritte nei bilanci bancari. I prestiti deteriorati nel nostro Paese sono il doppio di quelli dell’Eurozona. Le banche italiane hanno in pancia 348 miliardi di euro di prestiti non rimborsati da famiglie e imprese. Questo moloch corrisponde a circa il 23% dello stock di credito erogato fino a giugno 2015 dalle banche italiane, pari a 1.532 miliardi.
I banchieri italiani non si sono dimostrati molto bravi nel fare il loro mestiere e a vedere i bilanci di molte banche questa spazzatura viene maldestramente nascosta se si considera che gli accantonamenti non coprono nemmeno la metà della perdita potenziali delle sofferenze. Su ogni euro di crediti insoluti non c’è nemmeno mezzo euro a copertura.
Ed esistono ancora numerose banche italiane (in misura maggiore fra le popolari) che se si prende il patrimonio e si aggiungono gli accantonamenti destinati a coprire le sofferenze e si calcola se è sufficiente a coprire il peso dei crediti problematici, si scopre che sarebbe necessario un bel po’ di capitale aggiuntivo (l’indicatore Texas Ratio fornisce una misura grossolana ma interessante proprio di questo eventuale deficit di capitale): insomma la coperta è troppo corta.
Nel girone infernale dei debiti di difficile esigibilità delle banche italiane, i bollettini di Bankitalia e della Bce ci dicono che 200 miliardi di euro sono sofferenze vere e proprie (la situazione in cui la banca è arrivata a procedere legalmente nei confronti del debitore che si è dimostrato insolvente), 17 miliardi sono crediti scaduti (e non rimborsati) e altri 127 miliardi sono costituiti da incagli (coloro che non stati ancora dichiarati insolventi ma sono in forte ritardo con i pagamenti).

Secondo l’economista Carlo Milani, senior economist del Centro Europa Ricerche (CER) responsabile e autore del libro “Alle radici della crisi finanziaria. Origini, effetti e risposte” (Egea Editore), “per una sana e prudente gestione bancaria ci sarebbe certo una strada quasi obbligata per la maggior parte delle banche con situazioni critiche di crediti in sofferenza. Ed è quella di non distribuire dividendi per un po’ di anni e rafforzare la propria dotazione patrimoniale, anche in prospettiva dell’entrata in vigore del bail-in che determinerà la partecipazione dei creditori della banca al risanamento delle potenziali perdite d’esercizio”.
Molti dei banchieri italiani invece che promettere dividendi da distribuire agli azionisti e staccarsi generosi bonus dovrebbero mettere più fieno in cascina. Ma questa strada piace poco a molti banchieri perché non sarebbe accolta con entusiasmo dal mercato e dalle fondazioni bancarie che sono le proprietarie dei pacchetti di controllo della maggior parte delle banche italiane e dove al livello superiore c’è il potere politico. E che vorrebbero ricevere quattrini, non certo scucirli e dove la lungimiranza spesso non è di casa.
Come se ne esce? Si spera da anni nella soluzione di sistema, la Bad Bank, dove magari il desiderio nemmeno troppo recondito di alcuni banchieri italiani (non tutti si possono mettere sullo stesso livello naturalmente e ci sono anche eccellenze in questo settore) è quello di liberarsi del fardello dei crediti non pagati, facendo pagare dazio magari alla collettività. Socializzare le perdite, privatizzare gli utili.
Ma l’Unione Europea non è dell’idea di risolvere ora la partita consentendo aiuti di Stato più o meno occulti. E anche riguardo l’Unione Bancaria europea siamo ancora in alto mare e si spera che non scoppi nessuna tempesta finanziaria perché in questo momento prevalgono gli egoismi nazionali e non c’è accordo e regole certe su alcune partite chiave come la garanzia dei depositi o la risoluzione delle crisi bancarie soprattutto se di banche sistemiche.
“Per i paesi periferici, tra i quali l’Italia, le debolezze del mercato bancario non permettono al momento di espandere il credito e se le banche italiane fanno utili, questi sono dovuti soprattutto alle condizioni eccezionalmente espansive decise dalla Bce di Mario Draghi – chiarisce Milani -Il peso delle sofferenze impedisce a molte banche italiane di prendersi nuovi rischi e anzi devono cercare di ridurli per rispettare i coefficienti patrimoniali imposti dalla Bce. Più tranquillo fare profitti dalla vendita di prodotti finanziari e incassare commissioni.
Ma il problema è che molti dei punti cardine dell’industria bancaria si stanno modificando velocemente anche per effetto della rivoluzione digitale con l’emergere di nuovi attori e la maggior parte delle banche non sembra attrezzata ad affrontare questa cambiamento e si trova a dover sostenere costi di struttura molto elevati”.
E quello che si è visto con le 4 banche recentemente salvate (Banca Marche, Banca Etruria, CariChieti e Cassa di Risparmio di Ferrara) dovrebbe insegnare che prima o poi i nodi vengono al pettine. E si rischia di restare col cerino in mano se si è preso troppo sul serio l’articolo 47 della Costituzione italiana, quello che dice che “la Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito”.
Questa quaterna di banche presentavano una situazione di crediti deteriorati allarmante frutto di una politica del credito clientelare e poco prudente e per anni si è consentito a queste banche (e non solo) di fare il bello e il cattivo tempo sul territorio locale senza che i bankster venissero fermati e i vigilanti si accorgessero in tempo di quanto stava accadendo.
In questo quadro a tinte fosche le dichiarazioni entusiaste di molti banchieri per aver superato di slancio i requisiti patrimoniali chiesti dalla BCE come il Common equity tier 1 (Cet1), quello che viene presentato come una sorta di prova inconfutabile della solidità di una banca che supera questo test, va soppesato attentamente. Il tanto sbandierato CET1, che misura quanto è patrimonializzata una banca rispetto ai rischi che si assume, è fallibile.
“Sono anch’io scettico su questo tipo di indicatori che piacciono ai regolatori e consentono ai banchieri di mostrare che i propri istituti sono poco rischiosi ma che non possono spiegare tutta la complessità e le criticità del bilancio di una banca – spiega l’economista Milani – Se il numeratore di questo ratio è certo (ovvero il capitale di migliore qualità di una banca come il patrimonio tangibile escludendo quindi il valore degli avviamenti) non la stessa cosa si può dire del denominatore, ovvero l’attivo ponderato per il rischio (risk weighted asset per gli addetti ai lavori).
Per dare un voto alla rischiosità del proprio attivo le banche utilizzano metodi interni molto complessi (e spesso difficilmente comprensibili agli stessi vigilanti) e vi è il pericolo che sulle partite più delicate come il recupero dei crediti deteriorati, le banche siano troppo ottimiste. Per farsi un’idea della solidità della propria banca (e questo diventa più importante con l’entrata in vigore del bail in) – suggerisce Milani – occorrerebbe quindi non guardare solo a questo indicatore ma a una batteria di indicatori che mostrino anche la situazione dei crediti deteriorati e in che percentuale sono stati fatti gli accantonamenti per coprire le insolvenze”.
E più in generale un altro indicatore classico ma sempre attuale è misurare la leva bancaria. Il cosiddetto leverage che misura i mezzi propri di una banca al netto degli avviamenti rapportato al totale dell’attivo ovvero a crediti concessi e investimenti finanziari effettuati. Se una banca ha un patrimonio netto di 3 a fronte di un attivo di 100 vuole dire che ha una leva finanziaria di 33 volte. E questo equivale a dire che se la banca in questione vedesse il proprio attivo deprezzarsi del 3%, il patrimonio netto sarebbe completamente bruciato e la banca diventerebbe insolvente. Qualcosa di molto simile a quello che è successo alla quaterna di banche che da Arezzo a Ferrara, da Chieti a Jesi ha mandato in fumo i risparmi di 130 mila azionisti e 15 mila detentori di bond subordinati. Le sofferenze bruciano.