Da alcuni giorni diversi siti web con una tecnica collaudata per far schizzare il numero di pagine viste stanno creando allarmismo tra i risparmiatori italiani diffondendo come notizia del giorno l’assenso del Fondo Monetario Internazionale a un prelievo forzoso del 10% sui conti correnti dei cittadini del Belpaese. Chiariamo innanzitutto come stanno le cose.
L’FMI non ha dato alcun parere per fare adesso una simile operazione ma ha espresso da tempi non sospetti e non da ieri o l’altro ieri dubbi su quanto siano sostenibili nel tempo i conti dell’Italia senza riforme strutturali. Una medicina che nessun politico prende volentieri a meno che non sia costretto (dai mercati per esempio quando rendono il costo del debito insostenibile) perché significa intervenire su temi invisi alla maggior parte dei cittadini-elettori. E chi in passato ha imposto manovre dolorose sui conti pubblici è stato clamorosamente bocciato alle successive tornate elettorali. Un bel corto circuito.

Meno Stato più mercato
Fare le riforme strutturali significa tagliare di brutto la spesa pubblica, ridurre pesantemente la pubblica amministrazione, rendere più efficiente la macchina statale su giustizia, scuola, università, sanità, intervenire sul lavoro e le pensioni, liberalizzare il mercato facendo delle privatizzazioni vere (e non come la “mandrakata” di Fincantieri di cui abbiamo scritto in questi giorni). I pochi paesi europei (Spagna, Portogallo, Grecia, Irlanda) che hanno intrapreso questa strada non l’hanno deciso ma gli è stato sostanzialmente imposto. Dalla Troika (ovvero dalla triade Commissione Europea, Bce e Fmi) in cambio di aiuti finanziari, perché per questi paesi a un certo punto della crisi finanziaria era richiesto un premio al rischio insostenibile per riuscire a collocare i propri titoli pubblici. Ad eccezione della Grecia, l’intervento della Troika è stato efficace soprattutto se si guardano gli anemici dati economici italiani.
“Dove c’è stata, i Paesi hanno migliorato le loro condizioni, fatto riforme strutturali e dato segnali di cambiamento forti – afferma Enrico Cucchiani fino ad aprile di quest’anno numero uno di Intesa Sanpaolo – più forti di quelli che si vedono in Italia”.
E’ questo uno dei punti chiave di un libro uscito recentemente “La lunga notte dell’euro” (Rizzoli Editore) scritto a due mani dall’enfant prodige del giornalismo economico italiano, Stefano Feltri (che non ha nulla a che fare con Vittorio Feltri), responsabile delle pagine economiche de “Il Fatto Quotidiano” e da Alessandro Barbera, un passato alla Bce e da oltre dieci anni alla redazione romana della “Stampa”.
Il libro è la fedele ricostruzione degli eventi succedutisi dal 2007 a oggi ed è ricco di testimonianze di politici e professionisti della finanza (l’affermazione dell’ex Ceo di Intesa Sanpaolo è tratta da lì) sull’origine della crisi dell’Italia del novembre 2011, sulle cause della perdita globale di fiducia da parte dei mercati nel nostro paese e il timore di un default che avrebbe trascinato con sé tutta l’Europa. Nessuno può dimenticare quei giorni drammatici con lo spread Btp Bund che toccava i 575 punti il 9 novembre 2011. Abbiamo seriamente rischiato di fare una brutta fine come ha raccontato quest’estate in un’editoriale il Direttore del Corriere della Sera.
“L’Italia – ha ricordato De Bortoli – ha evitato la catastrofe alla fine del 2011. L’episodio è inedito ma, nelle ore più drammatiche di quel tardo autunno, un decreto di chiusura dei mercati finanziari era già stato scritto d’intesa con la Banca d’Italia. Quel decreto rimase in cassaforte – e speriamo che vi resti per sempre, ma vi fu un momento nel quale temevamo di non poter più collocare sul mercato titoli del debito pubblico. “
Il destino? Non è scritto nelle stelle
Fortunatamente non è successo: l’Italia non è andata in default, ma non ha nemmeno svoltato. La crescita è da prefisso telefonico, la disoccupazione è alta, il carico fiscale che grava sui cittadini e sulle imprese molto elevato, il paese è poco competitivo e il debito pubblico continua ad aumentare senza sosta. La luce in fondo al tunnel che l’ex premier Mario Monti vedeva già più di 2 anni fa si è dissolta come un miraggio o come il partito Scelta Civica da cui l’ex rettore della Bocconi si dissocia oggi totalmente (si veda la lettera inviata negli scorsi giorni al quotidiano Libero).
“Quello di fronte al quale siamo oggi non era uno scenario inevitabile – notano gli autori del libro “La lunga notte dell’euro” – sarebbe bastato imitare la Germania, che nei dieci anni precedenti la grande crisi ha recuperato competitività nei confronti dei Paesi emergenti mantenendo stabile il costo del lavoro (in quel periodo i salari crescono solo dell’1 per cento) e aumentando la produttività del 3 per cento l’anno. Negli stessi anni in cui in Italia il costo del lavoro per unità di prodotto aumenta quasi del 30 per cento, con picchi degli stipendi nel solo settore privato del 2,5 per cento. I sacrifici dei tedeschi non sono stati vani: oggi i salari medi sono nettamente più alti dei nostri e la crescita è tornata attorno all’1,5 per cento all’anno. L’Italia arranca ancora attorno agli zero virgola”.
Monti, l’Italia balla da sola
Fare le riforme strutturali è difficile in un paese che ha una regione con un esercito di guardie forestali (in Sicilia sono 28 mila per un costo di 480 milioni l’anno e se non si rinnova loro il contratto curiosamente è stato notato che aumentano gli incendi in modo incredibile), in cui i vecchi lavoratori dell’Alitalia hanno diritto a 10 anni di cassa integrazione con un trattamento che arriva fino all’80% dello stipendio reale, in cui su un paese di 60 milioni di abitanti ci sono 630 deputati quando negli Stati Uniti che hanno una popolazione di 308 milioni ce ne sono 435 (oltre a 100 senatori mentre da noi sono 315, più quelli a vita). L’ultima occasione “storica” per far ripartire il Paese su nuove basi cambiandolo in modo radicale l’ha avuta Monti a novembre 2011 quando la politica era molto indebolita e sull’Italia incombeva lo spettro del default.
Monti rifiutò l’intervento della Troika: vi si oppose strenuamente. Perché? Lo ha spiegato Alessandro Barbera co-autore de “La crisi dell’euro” in una conferenza di presentazione del libro tenutasi a Lerici il 12 luglio scorso nella quale ho avuto modo di ascoltare e conoscere gli autori.
“Il Premier aveva paura di una deriva fascista dell’Italia, già in Grecia montava il fenomeno di Alba Dorata. Aveva paura che alle elezioni che si sarebbero tenute in poco più di un anno in Italia stravincesse il Movimento5Stelle. E comunque l’Italia non si poteva salvare, c’era bisogno di troppi soldi”.
Secondo Barbera, Monti è assolutamente convinto di aver fatto bene a “ballare da solo” perché grazie al suo governo l’Italia ha ripreso il suo posto nel mondo e ha potuto fare pressioni sul governo francese e tedesco perché appoggiasse la svolta interventista “whatever it takes” (a qualsiasi costo) della Bce di Mario Draghi per salvare l’euro contro tutto e contro tutti. “E’ il 26 luglio 2012, una data che gli operatori finanziari e i capi di governo ricorderanno come il primo momento di speranza dopo quattro anni di panico – si legge nel libro – quelle poche parole cambiano il corso degli eventi e salvano l’euro”. Monti si attribuisce quindi il merito di aver evitato la fine spaventosa non solo dell’Italia, ma anche quella dell’euro e di aver preservato la democrazia nel nostro Paese.
Forse però approfittando del momento eccezionale di consenso che si era creato intorno alla sua figura e alla situazione eccezionale Monti avrebbe potuto osare di più nei suoi primi 100 giorni, usando lo spettro del default come “ricatto” per rivoltare il Paese pena il default: non l’ha fatto.
Secondo gli autori de “La lunga notte dell’euro” Monti ha giudicato che non c’era tempo per fare di più di quello che ha fatto; secondo noi si è persa un’occasione incredibile per intervenire sul malato Italia, comprando solo tempo.
Intanto gli italiani fronteggiano ancora lo spettro della Patrimoniale
A due anni dal discorso salva-euro di Draghi, l’Italia continua, infatti, ad arrancare. Tanto che la prima domanda che la giornalista del Corriere della Sera rivolge in una lunga intervista a Matteo Renzi pubblicata domenica 13 luglio è che la Troika potrebbe commissariarci “Mai e poi mai – ribatte il Premier – E’ un’ipotesi che non esiste….l’Italia è più forte delle paure dei vari osservatori e i dati lo dimostrano”. Alla replica della giornalista che i dati dell’Italia non sono propriamente eccellenti, Renzi spiega “L’Italia è molto più forte di come si racconta in sede internazionale: ha un alto debito pubblico è vero. Ma ha ricchezza privata”. Il Premier insomma è tranquillo, gli italiani un po’ meno visto che se si trattasse di “ricchezza privata” tale dovrebbe essere… Nel capitolo de “La lunga notte dell’euro” dedicato a “Il fantasma della patrimoniale” si ricorda che secondo la Bundesbank se mai un altro paese europeo avesse bisogno di aiuti, prima del bail-out ci deve essere il bail-in
“In una situazione d’emergenza, per uno Stato che rischia il fallimento, una tassa patrimoniale può essere il male minore, e prima di chiedere aiuto ad altri Paesi e alla Bce il contributo una tantum dei contribuenti non dovrebbe essere escluso”.
Certo la Bundesbank non detta legge in Europa ma il caso Cipro è un precedente: in caso di salvataggi anche i privati hanno dovuto fare la loro parte.
Renzi, bocciato su tutta la linea da Draghi
Intanto la ricetta di Renzi per far crescere l’Italia “meno rigore e più flessibilità” riceve il 15 luglio la prima sonora bocciatura da parte del Presidente della Bce. In occasione della sua prima audizione di fronte al nuovo Parlamento europeo Draghi afferma che la cura giusta per l’Italia non è la maggiore flessibilità invocata da Renzi, ma le riforme strutturali. Il Patto di Stabilità e Crescita secondo il Presidente della Bce non va annacquato altrimenti si rischia di mettere a repentaglio la fiducia faticosamente conquistata.
«Dobbiamo – ha detto Draghi – fare molta attenzione a non mettere a repentaglio» le recenti riforme che hanno rafforzato il Patto o «ad annacquare la sua applicazione a tal punto che il quadro non sarebbe più credibile».
L’equazione maggiore flessibilità uguale più crescita economica invocata da Renzi non convince il Presidente Draghi perché “la crescita non passa attraverso la creazione di nuovi debiti”.
Servono le riforme, quelle che dall’estate del 2011 ci chiede di fare l’Europa come notano Alessandro Barbera e Stefano Feltri nel libro “La lunga notte dell’Euro”. Sono passati tre anni da allora e i problemi dell’Italia sono ancora sul tavolo.
E più passa il tempo (e meno al di là degli annunci si fa concretamente per rivoltare veramente questo Paese cercando nel contempo di abbattere il debito e rilanciare la produttività) maggiori sono le possibilità che i contribuenti italiani siano chiamati a pagarne il conto con nuove tasse e prelievi salvo cercare di difendersi adottando i soliti accorgimenti di cui spesso abbiamo scritto ai nostri clienti.