Avete dei soldi da parte, volete correre zero rischi e cercate un rendimento positivo per la gestione della liquidità a breve termine? E’ più facile risolvere un cruciverba di Bartezzaghi sulla Settimana Enigmistica che trovare oggi una soluzione a questo problema.
Uno degli effetti della “nuova normalità” al tempo dei banchieri centrali di mezzo mondo che stampano denaro a go-go è che oramai se avete dei soldi da parte e li volete investire, prestandoli a uno Stato o perfino a un’azienda potreste essere voi a dover scucire i soldi.
Altro che essere remunerati per il frutto dei vostri risparmi. E’ successo questa settimana appena passata con il Tesoro che ha raccolto oltre 7 miliardi di euro con CTZ e Bot semestrali piazzati con un tasso negativo fra il -0,023 e il -0,055%. Sono le banche più che i privati a sottoscrivere queste emissioni: scommettono che i rendimenti nel prossimo futuro saranno ancora più negativi e comunque se depositassero i soldi sui conti della Bce otterrebbero un rendimento negativo ancora più basso (-0,2%) che potrebbe ulteriormente scendere a breve.
Un fenomeno dovuto alla massiccia dose di liquidità pompata dalle banche centrali di tutto il mondo (la Federal Reserve americana, la Bce in Europa, la Bank of Japan…) con l’obiettivo di stimolare l’economia reale e che ha avuto fra gli effetti naturalmente più significativi quello di far crollare i rendimenti sull’obbligazionario sotto zero.
L’ultimo censimento indica che oltre 6.300 miliardi di dollari di titoli di stato oggi esistenti in tutto il mondo offrono rendimenti negativi. E ben 20.000 miliardi di dollari in bond emessi dagli stati rendono sotto l’1%. E anche nel mondo delle obbligazioni societarie la tendenza è simile. Aveva fatto quasi storia a febbraio il caso di un’emissione di un obbligazione in euro della Nestlé, scadenza 2016, il cui rendimento era finito in negativo. E la storia dei rendimenti sottozero negli ultimi mesi si è allargata a centinaia di titoli.
I risultati (soprattutto in Giappone e in Europa) sul fronte di una vigorosa ripresa economica di questo accanimento terapeutico monetario non sono in verità ancora molto visibili (tranne nelle gestioni delle tesorerie delle banche e delle grandi corporation che hanno realizzato buyback, ovvero si sono ricomprate le proprie azioni, come mai nel passato) e presentano diverse controindicazioni che nel futuro potrebbero costare care.
Il più evidente per i risparmiatori è che si investe 1000 per riavere indietro 999 dopo un anno di fatto è come si stesse pagando una tassa (uno degli effetti della cosiddetta “repressione finanziaria”). E gli Stati come quelli italiano zeppi di debito pubblico da rimborsare in questo modo ne possono trarre un evidente beneficio. Il Tesoro italiano deve emettere circa 400 miliardi di euro di titoli di stato all’anno e si trova grazie a questa situazione in una posizione unica nella sua storia: pagare quasi nulla o addirittura farsi pagare per farsi finanziare.
L’altra controindicazione meno evidente di questa situazione e che potrebbe costare molto nei prossimi anni è quello che potrebbe accadere al mondo della previdenza e delle assicurazioni vita se dovesse permanere a lungo questa situazione. Una quota significativa di questi investimenti è collegata al rendimento previsto del mercato obbligazionario di circa il 2-3% reale all’anno. Così è stato nel passato, cosi non è più nel presente.
E più la coperta si fa stretta, più qualcuno ne dovrà pagare le conseguenze. E gli esodati del futuro potrebbero essere secondo Bill Gross (uno dei più famosi gestori obbligazionari del mondo oggi strategist di Janus Capital) i baby boomers in via di invecchiamento. Quando sarà il momento di ricevere l’agognata pensione privata o pubblica i conti potrebbero non tornare e secondo Gross questa cosa non è bella anche perchè: “i tassi zero distruggono la funzione del risparmio nel capitalismo che è una componente necessaria dell’investimento”.
Cosa può fare intanto un risparmiatore per difendersi dalla repressione finanziaria? Può prendersi più rischi e investire sull’azionario o puntare su obbligazioni con scadenza più lunga o su emittenti considerato dal mercato potenzialmente meno solvibili.
Scelta non facile se non è preparato o ben consigliato perché il suo capitale di partenza può oscillare anche in negativo del 10-20% (e perfino del 50% sull’azionario) e in casi estremi il suo gruzzolo di partenza potenzialmente anche evaporare del tutto in caso di default.
Investire con un piano lungimirante e una strategia robusta sottostante e facendo attenta selezione fra le scelte a disposizione (non facendosi rifilare prodotti inappropriati e costosi) non è mai stato così importante.
Un tempo c’erano i fondi d’investimento monetari che venivano proposti allo sportello per investire in modo tranquillo e gestire tatticamente la liquidità ma considerati anche i costi di gestione anche qui non è aria. Negli ultimi 12 mesi l’indice Fideuram dei fondi monetari è negativo del -0,2%. Sul mondo degli ETF, i nuovi fondi passivi, le società del settore naturalmente hanno lanciato prodotti per la gestione della liquidità ma se si guarda ai rendimenti ottenuti in questi mesi, e non alle pubblicità che sembrano promettere meraviglie, anche qui nel migliore dei casi il vostro rendimento ottenibile potrebbe oscillare fra lo zero e lo zero virgola zero.

Resta il mondo dei conti deposito offerti da molte banche e che sono come dei conti correnti un po’ più sprint come remunerazione. E’ possibile qui ottenere mediamente un rendimento fra lo 0,5% e l’1% per impieghi liberi o vincolati per qualche semestre. Ma è bene scegliergli con qualche criterio che non sia solo quello del massimo rendimento.
Una delle banche di cui si discute da mesi su come procedere al salvataggio prima dell’entrata in vigore del bail in (l’eventuale prelievo forzoso sui depositanti e obbligazionisti delle banche in difficoltà) è Banca Marche che aveva raccolto molti soldi nel recente passato con un conto deposito denominato beffardamente “Deposito Sicuro” con tanto di cane pastore tedesco come simbolo di protezione e sicurezza.

Pure i pastori tedeschi non sono più quelli di una volta.
Questo articolo è stato pubblicato il 16 novembre su “Il Fatto Quotidiano” ed è possibile leggerlo cliccando sull’immagine sotto