Il tema della criptovalute è fonte di molte discussioni. La discussione questa volta però non riguarda il suo valore economico bensì il consumo energetico del bitcoin a causa del dispendio energetico necessario per estrarlo.
La criptovaluta attira, in epoca di crisi climatica, le feroci critiche del mondo ambientalista.
IL CONSUMO ENERGETICO DEL BITCOIN E L’IMPATTO AMBIENTALE
Secondo un report del 19 luglio 2025, il CBECI calcola che il mining mondiale consumi ormai circa 173 TWh l’anno, pari a circa 0,78 % dell’elettricità globale.
Un’analisi indipendente della Digiconomist citata da CarbonCredits.com conferma che nel 2025 il network usa circa 175,9 TWh/anno, più di paesi come Polonia o Argentina, con emissioni stimate attorno a 98 Mt di CO₂/anno.
Bitcoin consuma più elettricità di molti Paesi
Per capire perchè le criptovalute consumano così tanta energia puoi leggere il processo di creazione delle varie monete elettroniche spiegato in Investire in criptovalute: domande e risposte pratiche. Non tutte le criptovalute sono così energivore come il Bitcoin.
La rete Bitcoin si basa su un algoritmo di consenso proof‑of‑work (PoW) che richiede enormi quantità di calcolo per convalidare i blocchi di transazioni. Secondo il Cambridge Bitcoin Electricity Consumption Index (CBECI), nel 2025 il consumo globale del network ha raggiunto circa 173 TWh/anno, pari a 0,78 % dell’elettricità mondiale. Un’analisi indipendente pubblicata su CarbonCredits.com conferma il dato: il Bitcoin utilizza 175,9 TWh di energia elettrica all’anno e produce circa 98 Mt di CO₂.
Per dare un’idea dell’ordine di grandezza, il consumo della rete è paragonabile a quello di un Paese come Polonia o Argentina. È quindi aumentato di oltre il 50 % rispetto alle stime citate nel 2023.
Più energie rinnovabili, ma comunque tanta CO₂
La buona notizia è che una quota crescente di questa energia proviene da fonti pulite. Nel 2025 la Cambridge Centre for Alternative Finance stima che oltre il 52 % dell’elettricità usata dai miner provenga da idroelettrico, eolico, solare o nucleare. In dettaglio: 23 % idroelettrico, 15 % eolico, 10 % nucleare e 3 % solare.
Ciò dimostra che l’industria sta cercando di ridurre la propria impronta carbonica, ma l’aumento complessivo dei consumi annulla in parte questo effetto: le emissioni restano intorno a 98 Mt di CO₂ all’anno.
Geografia del mining: gli Stati Uniti in testa
L’altro cambiamento importante riguarda la distribuzione geografica dell’hashrate (la potenza di calcolo complessiva). Nel 2025 gli Stati Uniti ospitano il 37,84 % della capacità mondiale, seguiti da Cina (21,11 %), Kazakhstan (13,22 %), Canada (6,48 %) e Russia (4,66 %). La Mongolia ha una quota residuale di appena 0,04 %, contrariamente a quanto ancora si legge in alcuni articoli. Questo spostamento è iniziato nel 2021 con la repressione del mining da parte del governo cinese e si è consolidato con l’emigrazione delle aziende verso Paesi dove l’elettricità è a buon mercato e la normativa più permissiva.
Il contributo delle altre criptovalute
Altre criptovalute basate su PoW – come Litecoin o Dogecoin – consumano anch’esse energia, ma il loro peso complessivo è molto inferiore rispetto a Bitcoin. Inoltre, il passaggio di Ethereum al meccanismo proof‑of‑stake (PoS) nell’autunno 2022 ha ridotto drasticamente il suo fabbisogno elettrico. Secondo stime recenti, nel 2025 il consumo totale del mining di criptovalute (Bitcoin e altre PoW) oscilla tra 150 e 175 TWh, con Bitcoin responsabile della quota principale.
Conclusioni
L’impatto ambientale del Bitcoin è cresciuto rispetto a tre anni fa: la rete consuma oltre 170 TWh l’anno e produce quasi 100 Mt di CO₂, benché la quota di energie rinnovabili superi il 52 %. I grandi poli del mining non sono più in Cina o Mongolia, ma negli Stati Uniti, Cina, Kazakhstan e Canada.
L’alta energia spesa per “minare” Bitcoin e l’inefficienza ambientale del modello PoW restano argomenti centrali nel dibattito.