Attraverso una ricerca del 2014, l’Istat ha dato un valore economico al capitale umano medio accumulato da ciascuno di noi. Il valore del capitale umano è quell’insieme di conoscenze, abilità, competenze e agli altri attributi che facilitano la creazione del nostro benessere personale, sociale ed economico.
La domanda che guida l’intero studio dell’Istat è ‘In termini monetari, nel mondo del lavorativo, famigliare e nel tempo libero quanto vale ciò conosciamo e abbiamo appreso nel corso degli anni?’. L’Istat lo ha calcolato.
il valore del capitale umano degli uomini e delle donne
Sul lavoro, il valore del capitale umano medio di un uomo è pari a 453 mila euro, quello medio di una donna è di 231 mila euro: quasi la metà. La grande disparità è dovuta sia al minor numero di donne che lavorano, sia al minor numero di anni lavorati nell’arco della vita.
Le differenze di genere si riducono se si estendono le stime del valore della nostra conoscenza anche alle attività extra lavorative: famigliari e tempo libero. Qui, vi è una prevalenza della componente femminile che risulta molto più attiva e produttiva di quella maschile.
Il gap di valore del capitale umano tra uomini e donne rimane anche qualora si sommi attività lavorativa, cura della famiglia e impiego del tempo libero. Lo stock di conoscenze, abilità, competenze accumulate da un uomo nella sua vita è molto più alto di quello di una donna: il 20% in piu’!
Perchè le donne accumulano meno capitale umano è frutto di diversi studi tra qui quello della Professoressa Claudia Goldin che ha studiato l’origine delle differenze d genere nel lavoro tra uomini e donne. Colpa della divisione dei compiti in famiglia che rende estremamente difficile per le donne che hanno famiglia riuscire a dedicare al lavoro il tempo che dedicano gli uomini. Non è strano quindi che non accumulino le stesse conoscenze, abilità, competenze e che il valore del capitale umano accumulato sul lavoro sia inferiore, no?
Più donne occupate più crescita economica e demografica
Strette tra famiglia e lavoro, le donne tendono nella stragrande maggioranza dei casi a privilegiare i figli. Così in Italia abbiamo tante potenziali professoresse ma poche professioniste. Le donne in Italia rappresentano il 57,5% dei laureati ma il tasso di occupazione mostra un distacco del 24% rispetto agli uomini che sale al 33% nel Mezzogiorno.
Le Minerve d’Italia sono oggi più degli uomini nella fascia d’età 15-64 anni (2,8 milioni laureate contro i 2,3 milioni di laureati). In un’economia sempre più della conoscenza, le donne possono essere secondo ManagerItalia “la principale risorsa per lo sviluppo e la crescita dell’economia”. Se solo lavorassero di più e facessero più carriera. Le donne dirigenti nel settore privato sono in Italia l’11,9% del totale mentre in Europa sono in media il 33%.
Nei Consigli di Amministrazione e negli organi di controllo delle società quotate le donne pesano appena per il 4,8%. Le donne imprenditrici sono appena il 23,3%. L’esclusione dal mondo delle professioni che ci ha relegato ai margini dell’economia e della società nell’800 e in parte anche nel 900, nel 2000 è diventata in Italia una vera e propria rinuncia ad entrare nel mondo del lavoro da parte delle donne con figli.
Il ragionamento (finanziariamente sbagliato) è “se lavoro, con quello che prendo pago la baby sitter” è purtroppo molto frequente. Ma i bambini prima o poi crescono e anche se i primi anni si va a pari, il fatto di produrre reddito per 30 o 40 anni fa la differenza, perché se i primi anni lo stipendio coprirà le spese della nanny, negli anni successivi ci sarà un surplus. Che contribuirà in modo esponenziale alla crescita del Paese oltre a dare una maggiore stabilità finanziaria alla propria famiglia. Con grande beneficio anche della crescita demografica del Paese grazie al fatto ormai ampiamente dimostrato che le donne che lavorano fanno più figli.